|
Charles Lloyd Trio
al Palma in Concerto
Non ricordo precisamente quanto fu lunga l'attesa, ma non dimenticherò mai l'aria vespertina di una sera di luglio che entrava nelle narici e da lì in tutte le vene che il corpo ricorda di avere. Tavolini geometricamente disposti su un piano rialzato, sedie collocate linearmente sulla platea di fronte ad un palco non troppo lauto, carico solo di tappeti persiani, e lì, illuminati dai fari, percussioni, congas, un piano a coda scuro e lucido, come l'oro nero sagomato e una batteria, costruita e modellata da chi solo sa di avere il poter nelle proprie mani, l'arte. "Non ci sarà Charles stasera, Elisa.", così uscivano quelle parole da una bocca troppo amica per commettere un misfatto nei miei confronti. Scherzava e il sorriso paterno mi rassicurava di questo, ma quell'aria sorniona e velata non mi permetteva di comprendere il reale confine tra la verità e la presa in giro. Sembrava non ci fosse anima tra quei pulviscoli e pareva che le uniche anime facilmente riconoscibili da me giocassero i ruoli di chi sa e nasconde e di chi fa finta di cascarci, ma in realtà è troppo inesperta per non cadere nelle trappole goliardiche erette dal mio direttore. Un altro po' di attesa (infinita ed equivoca per i miei orecchi) ed il primo istrione è pronto ad uscire dai retroscena misteriosi che la mia mente aveva elaborato nel frattempo. Zakir Hussain si posiziona su quello sgabello di ferro e mogano, prende le bacchette in mano, tra flebili applausi e i sorrisi, ora più che mai chiari e sinceri, del mio direttore. Intervallo di un secondo e Charles Lloyd, con tutta la forza nel corpo e nell'anima, cammina sul piccolo palco e prende posto di fronte al pianoforte. Ingresso trionfale anche per il percussionista Eric Harland, che circonflette le gambe sui tappeti ruvidi di Persia, mentre comincia a suonare un ritmo conosciuto. È l'ouverture di Sangam (ECM 1976 987 5183), l'ultimo lavoro del Trio e riconoscere qualcosa che non si nasconde mi rende entusiasta. Sax tenore impugnato, Lloyd inizia a raccontarci la sua veneranda esistenza con note meste ed assennate, con bassi legati al passato e riff che profumano di speranze. Strano il modo in cui contorce quel corpo senile a tempo di musica, ma è stupefacente il fatto che quella danza continui ancora oggi a divincolare i miei pensieri. Un'ora e mezza di musica volata in un sol fiato. Zakir Hussein mi sorprende, rassicurante e sereno si avvicina alle corde del piano. Ma il piano ha i tasti? No, il piano ha tutto dentro di sé. Tutto è musica, la voce, le corde di un piano a coda, il soffio del vento che sodomizza le narici e le mani che strisciano su altre mani. Racconterò di aver visto un sogno, racconterò di aver sentito il fiato e le mani di musicanti che sorprendono, che rinascono, ogni volta e per ogni differente concerto o manifestazione, più vivi di prima.
Pubblicato su Musikbox, rivista di cultura musicale e guida ragionata al collezionismo
Torna all'elenco delle pubblicazioni
|
|